L’ASSASSINO NON SA SCRIVERE. Terza ristampa per il libro di Stefano Piedimonte. Lui ce lo racconta così…

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C’era una volta “Fancuno”, paesino sperduto della provincia italiana dove improvvisamente comincia a colpire un assassino sgrammaticato. L’assassino non sa scrivere (edizioni Guanda) è l’ultimo romanzo del napoletano Stefano Piedimonte. Con una esperienza da cronista di nera, l’autore tratteggia con ironia e grande suspense una storia di omicidi ambientata nella sonnacchiosa provincia. Un vecchio cronista, un giornalista in erba, un carabiniere amante degli scacchi e un assassino che lascia sui propri cadaveri messaggi scritti malissimo. E poi un bosco dove accade di tutto. Abbiamo intervistato Stefano Piedimonte per conoscere qualcosa in più sul suo ultimo romanzo e non solo.

Dopo  “Nel nome dello zio” e “Voglio solo ammazzarti”, cosa trova il lettore nel suo nuovo romanzo?

Beh, questo bisognerebbe chiederlo a lui. Io ho scritto una storia che dovrebbe collocarsi fra una favola (per adulti, è chiaro) e un romanzo noir. Chi si aspetta di leggere un noir vero e proprio è però destinato a rimanere deluso, o piacevolmente sorpreso, a seconda dei casi. C’è un piccolo paesino dove da un giorno all’altro cominciano a fioccare cadaveri: sui corpi di questi signori vengono trovati messaggi completamente sgrammaticati. C’è qualcuno che prova a fare il serial killer, ma non ci riesce molto bene. Ne viene fuori un personaggio molto distante dall’icona dell’assassino seriale che siamo abituati a vedere al cinema (o anche a leggere nei romanzi). Tornando alla domanda: ognuno nei romanzi trova quel che vuole. Se in dieci leggiamo lo stesso libro, alla fine avremo letto dieci libri diversi. E’ anche questo il bello della letteratura.

L’assassino non sa scrivere”. Ma le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti.

Ed è quindi importante violarle, se lo si fa con cognizione di causa. La gravità di un vilipendio va di pari passo con l’importanza del simbolo che si va ad attaccare.

“Fancuno”: l’ironia è uno strumento per nascondersi ma anche per svelare.

Più che per nascondersi direi per salvarsi. Non è un caso che la gran parte degli autori che usano o usavano l’ironia fossero delle persone molto tristi. L’ironia è un po’ l’ultima spiaggia, nella scala dell’annichilimento viene subito dopo il pianto, e prima della fine. E’ un ultimo colpo di coda, in fin dei conti. Poi, è chiaro, esiste anche l’ironia che funge da intrattenimento, quella che fa piacere all’impiegato voglioso di cabaret che il sabato sera vuole lasciarsi alle spalle il vocione del capo e le bollette da pagare. E’ legittima anche quella, ma è una cosa diversa. Passa molta distanza fra un tipo di ironia e l’altro.

I protagonisti del libro sono un “sirial ciller” efferato e un carabiniere razionale. Ci racconti qualcosa di loro?

Lui, nel suo semianalfabetismo, si firma “sirial ciller”. E’ uno che da un momento all’altro ha spezzato i legami che lo univano al mondo, che lo rendevano parte del creato e, in buona sostanza, un essere umano. Il comandante dei carabinieri è un ex scacchista lucido e razionale, che nelle sue investigazioni andrà a scontrarsi con la mancanza totale di un criterio, di una qualsivoglia logica criminale, di un modus operandi e, sembrerebbe, perfino di un movente. Crederà di poter risolvere il caso andando a scovare quei due o tre analfabeti rimasti in tutto il paesino, ma capirà che le cose sono un po’ più complicate.

Il bosco è un luogo fondamentale del tuo romanzo proprio come accade nelle favole.

Il bosco, nell’immaginario di chi, come me, è molto legato alle favole, ed è cresciuto guardando serie tv come Twin Peaks, ha un valore simbolico altissimo. Rappresenta la sospensione delle regole, un territorio fuori dalla realtà dove tutto può accadere senza che vi sia alcun testimone a osservare. Allo stesso tempo, è una porzione di mondo agitata da alcune forze, e in questo senso diventa – in questo romanzo, per esempio – una specie di teatro per uno scontro fra due personaggi, fra due forze che vanno al di là della dimensione umana.

Il noir, il giallo, generi di grande successo in questo momento storico, come mai?

Credo che il lettore medio non abbia più molta voglia di fermarsi a esplorare se stesso. Un romanzo come La luna e i falò, di Pavese, in quanti si fermerebbero a leggerlo oggi? Leggere un romanzo del genere vuol dire prendere una decisione: quella di dedicare del tempo alla riflessione, all’esplorazione di se stessi e dell’animo umano nelle sue sfumature più sottili e preoccupanti. Oggi, nel tempo in cui le cose ci vorticano intorno, il lettore, uomo come tutti gli altri, sente il dovere di correre, non riesce più a trovare una giustificazione alla stasi, all’immobilismo frenetico di un romanzo il cui perno principale sia non la trama in sé e per sé, quanto lo scorrere del pensiero su alcuni binari particolari, pieni di curve e di percorsi accidentati. Più che la voglia di cambiare, di affrontare certe questioni, oggi c’è il desiderio di distrarsi. Va anche detto che molti autori di genere riescono a scrivere romanzi gialli con una profondità e uno stile assolutamente degno della migliore letteratura, quando non addirittura molto superiori ai testi insigniti dei più prestigiosi premi letterari. E’ tutto molto relativo.

Enrica Buongiorno

 

 

 

 

 

Enrica Buongiorno
Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!

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